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Soia: crollo dei prezzi per la guerra commerciale Usa-Cina

Secondo Massimo Piva, vicepresidente di Cia Ferrara: “Serve un intervento urgente della Commissione Europea per bloccare la speculazione commerciale”

FERRARA – Mentre nel ferrarese sono già stati seminati i campi per il secondo raccolto di soia, molto più lontano, alla Borsa di Chicago, si decidono le sorti commerciali del prodotto e il risultato non è di quelli auspicati dai produttori. Cia-Agricoltori Italiani Ferrara sta monitorando la performance dei prezzi, più che deludenti a causa di una scellerata guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina. Le quotazioni della Borsa di Milano e Bologna sono in caduta libera, con prezzi passati dai quasi 400€/t a 350 scarsi, con una perdita che si aggira intorno ai 50€/t. Il prodotto sul mercato americano – quello di Chicago che è il punto di riferimento per i seminativi, appunto – viene svalutato perché la Cina, per rispondere ai dazi imposti da Trump ha, a sua volta, aumentato del 25% le tasse in entrata per i beni statunitensi. Così, per riuscire a entrare nel mercato cinese – uno dei maggiori paesi importatori e consumatori di soia che ne assorbe oltre il 50% di quella prodotta a livello mondiale – il prezzo deve rimanere basso e concorrenziale, al netto dei dazi.

E a rimetterci sono i produttori italiani ed europei, condizionati da dinamiche di mercato internazionali sulle quali non è, ovviamente, facile intervenire, come spiega Massimo Piva, vicepresidente provinciale di Cia Ferrara.

“L’Italia è il maggior paese produttore di soia europeo e quello che viene coltivato è un prodotto di qualità, Ogm free, che rispecchia tutti gli standard di sicurezza alimentare. Ma è proprio il caso di dire che la qualità non paga e a rimetterci sono come sempre gli agricoltori, più che mai anello debole della filiera. Il nostro mercato è pesantemente condizionato dall’andamento anomalo di un mercato internazionale che, peraltro, quota un prodotto con caratteristiche differenti da quello italiano, perché Ogm e coltivato con criteri agronomici molto diversi. Mai come adesso l’esigenza di un marchio di soia italiana certificata – continua Piva – è più stringente, un marchio che appartenga ai produttori non all’industria di trasformazione e che riesca a distinguere la qualità del nostro prodotto e a valorizzarla, a livello di prezzo, nel mercato interno. Ma il marchio da solo non basta. Siamo di fronte a forme speculative troppo grandi perché siano affrontate unicamente a livello nazionale. Servirebbe, invece, un intervento urgente della Commissione Europea per ristrutturare completamente il settore e bloccare logiche commerciali aberranti, che stanno mettendo in ginocchio i produttori di soia italiani. La soia Made in Italy – conclude Piva – è diversa da quella statunitense e può e deve essere considerata una produzione d’eccellenza, alla quale attribuire un giusto valore di mercato. Altrimenti tutti gli sforzi dei produttori per conferire un buon prodotto non saranno ripagati e il rischio, nei prossimi anni, è una contrazione di superfici coltivate a soia. Un danno considerevole, considerando che la produzione interna soddisfa solo in minima parte il nostro fabbisogno”.

 

 

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